Eremo Grotta dei Frati al Fiastrone

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Approfondimenti

GROTTE E SENTIERI – nell’Alta valle del Fiastrone

Questa modesta ricerca è dedicata a padre Natale Sartini e a tutti i volontari, che con spirito di sacrificio e abnegazione hanno riaperto una finestra sulla storia dei monaci e dei frati nell’alta valle del Fiastrone, curando la conservazione di ciò che rimane dell’insediamento monastico della Grotta dei Frati ed impegnandosi a riaprire antichi sentieri lungo la valle. Quasi contagiato dalla ostinazione di padre Natale e spinto dalla curiosità, non essendo io uno che ha molta dimestichezza con la storia, ho cercato con molta pazienza di raccogliere, da chi di storia se ne intende, più notizie e documenti possibili ed alla fine, cercando di ripercorrere quei vecchi sentieri ne e uscita fuori questa piccola guida.

Dicembre 1990
Gian Claudio Giubileo

Capitolo I

Cenni storici
sulla Valle del Fiastrone

Milioni di anni fa il torrente Fiastrone cercando di crearsi un varco nelle catene montuose, erodendo il terreno di natura carsica, con la veemenza e impetuosità delle sue acque, ha formato la magnifica valle che da esso prende nome, ed una serie di grotte.
Ignoriamo chi sia stato il primo uomo a rompere il silenzio della valle.
La storia ci dice che le Marche furono abitate dagli Umbri, dai Piceni, dai Galli.
Umbri e Piceni, discendenti dai Sabini, oltrepassando la catena degli Appennini, si affacciarono anche nella nostra valle.
I Piceni, come narra Plinio, nel “voto vere sacro”, guidati dal picchio, occuparono l’Ascolano e la costa adriatica, gli Umbri la sinclinale camertina.
La romanità della nostra valle poi e indiscussa.
Una importante via di comunicazione, solcando la valle, congiungeva Urbs Salvia a Roma, attraverso Pian di Pieca, Monastero, Fiastra, Pieve Torina, Val Sant’Angelo, Colfiorito.
Leggermente più in basso di Monastero, a fianco della strada, troviamo un pagus romano chiamato Isola, le cui testimonianze ci sono date da resti di vasellame romano e paleocristiano, rinvenuti nei lavori di scavo fatti all’esterno dell’attuale Abbadia di San Salvatore, e da quello che rimane tuttora visibile a fianco dell’Abbazia.
Urbs Salvia fu distrutta da Alarico, re dei Visigoti, nel 408 a seguito di una delle tante scorrerie dei barbari in Italia.
Da Urbs Salvia, gli eserciti di Alarico risalirono la nostra valle e, per Fiastra, Pieve Torina, il valico di Colfiorito, si diressero verso Roma.
Contro i Goti delle valli picene combatterono i Bizantini del generale Giovanni, braccio destro di Belisario.
Passati i Visigoti, i Goti, gli Ostrogoti ed i Bizantini di Belisario e Narsete, arrivarono i Lomgobardi e, dopo, i Franchi.
I pochi cives superstiti cercarono rifugio nei luoghi più impervi ed anche negli antri, nelle grotte e nelle spelonche.
E’ probabile che le grotte che si trovano nella nostra valle siano divenute, per la povera gente perseguitata, luogo di rifugio e di protezione.
In quegli anni le popolazioni, per l’instabilità politico-economica causata dalle continue invasioni, disertarono il lavoro dei campi, anche i boschi crebbero incolti e senza alcuna guida; le valli ridivennero paludi, le colline si ricoprirono di selve e scomparvero le vie pubbliche.

Capitolo II

Il fenomeno del monachesimo
Il Monastero
di San Salvatore di Rio Sacro

A Norcia, nel 480, nasce, gemello di Scolastica, Benedetto. Ventenne, mosso da un grande amore per la solitudine, abbandonò Roma, gli studi e si diresse ai monti Simbruini, tra le insenature rocciose e selvagge di Subiaco, dove dopo anni di vita solitaria, ricevette, da un monaco chiamato Romano, l’abito monastico.
Dopo Subiaco si trasferì a Cassino, ove, ai monaci cenobiti dette la “Regola” di vita e di comportamento, il codice più autorevole a cui abbiano attinto tutti i fondatori di ordini religiosi che si sono susseguiti.
San Benedetto divise i monaci in eremiti o anacoreti e in cenobiti o monaci propriamente detti che vivevano in comunità.
Il 21 marzo 547 San Benedetto mori.
Ritorniamo a noi. Dal VI secolo in poi le popolazioni della Marca soffrirono enormemente per l’invasione longobarda che spazzo via religione e cultura.
Allora i seguaci di San Benedetto andarono alla ricerca di luoghi solitari ove installare i loro romitori e dedicarsi alla contemplazione, alla penitenza, alla preghiera e al lavoro.
Stando alle affermazioni del Turchi, storico del Settecento, possiamo immaginare i nostri monaci, risalire la valle del “Flusor (Fiastrone), alla ricerca dei luoghi dove poter mettere in pratica la regola del loro santo fondatore.
Li pensiamo mentre si inoltrano oltre la confluenza del Rio con il Fiastrone e la dove la valle si biforca, fra boschi e picchi, arrancare stanchi lungo il crinale. Altro rumore non dovettero sentire che quello del Rio che lasciavano alle loro spalle, mescolato allo stormire delle fronde degli alberi secolari con lo sguardo attratto dal volteggiare delle aquile che ancora oggi nidificano sul balzo che porta il loro nome: Balzo delle Aquile.
Sul costone alpestre, maestoso e orrido, oltre le falde del Monte Valle Fibbia, sale una mulattiera che presto, diventata sentiero da capre, si inerpica tortuosamente nella valle propriamente detta di Rio Sacro.
In alcuni punti sembra che i due opposti picchi scoscesi si tocchino. Rupi altissime chiudono la valle in un orrido splendido e impressionante.
Durante il periodo delle nevi, il luogo era quasi inaccessibile.
Le valanghe trascinavano in basso massi ed alberi secolari, terribili tempeste cambiavano il volto del fondo valle ed il pacifico Rio si trasformava in un torrente impetuoso che tutto schianta al suo passaggio.
Qui, i monaci eressero il primo monastero benedettino dedicandolo a San Salvatore.
Non conosciamo il momento preciso di questo avvenimento, ma si può presupporre che il primo insediamento, cioè la Badia di San Salvatore di Rio Sacro, porti impressa la data di fondazione nel suo stesso titolo: San Salvatore.
Febo Allevi infatti dice che “…. la dedicazione degli edifici al culto del Salvatore sia avvenuta in epoca longobarda cioè tra il 568 e il 773 …..”.
Considerata la pericolosità del percorso, i monaci preferirono accedere al monastero dalla parte di Meriggio e, passando per la forcella di Valle Fibbia, andavano a sbucare esattamente sopra il promontorio dove avevano edificato il cenobio.
Ancora oggi, dopo più di tredici secoli, tra la vegetazione di faggi, affiorano le tracce dell’antico monastero e della vecchia Abbadia, quasi a testimoniare la santità del luogo.
Oltre al servizio di Dio (il monastero e l’officina dell’arte spirituale, la scuola del servizio del Signore), San Benedetto prescriveva ai suoi figli il lavoro quotidiano.
Il capitolo 48 della regola ha un titolo molto significativo: “De opera manuum cotidiana” ed inizia testualmente così: “L’oziosità è nemica dell’anima, perciò per un certo tempo i frati dovranno essere occupati dal lavoro manuale”.
I seguaci di San Benedetto qui giunti, animati dalla fede, si misero al lavoro.
Solo uomini, dotati di straordinario zelo e di sovrumana volontà potevano scegliere le gole del Rio Sacro per servire Dio.
Il Rio detto poi “Sacro”, perché santificato dalla presenza e dalla preghiera dei monaci, ha dato la denominazione alla valle, lunga e tortuosa, ristretta alla base e dominata in alto da cime che si spingono fino a quota duemila.
I monaci dovettero fermare i piedi, per non prendere la via del ritorno davanti alla desolazione in cui versava la valle e affrontarono con coraggio le insidie della natura, il pericolo degli animali e l’insidia più forte di tutte le altre: la solitudine.
Bisognava mettersi subito al lavoro per trasformare l’orrido luogo e renderlo abitabile per una comunità sia pure di penitenti.
I boschi furono razionalmente tagliati, i monti furono dissodati fino a quota 1800 e più, mulattiere furono scavate nel fianco della montagna e giunse fin lassù la vita e la civiltà.
I monaci insegnarono ai contadini a strappare alla terra ingrata il sostentamento per essi e per il loro bestiame.
Nulla di strano se ben presto cadde spontaneamente nelle mani dei monaci di Rio Sacro il potere civile di tutta la zona.
Ce lo dice esplicitamente Ottavio Turchi ….”il convento aveva, verso austro, il Castello di Acquacanina, dove i monaci dominavano…”.
I due poteri, religioso e civile, erano riuniti nella persona dell’Abate, assistito dal suo consiglio: il “capitolo” dei monaci.
Ai primi del secolo XII, il monastero di San Salvatore era in possesso di numerose proprietà fondiarie ed esercitava giurisdizione civile e religiosa su di un ampio territorio, compreso oggi nelle circoscrizioni di Acquacanina e di Bolognola.
Una Bolla di Celestino III del 29 maggio 1192 riconosce 66 privilegi al monastero e rileva che il monastero aveva anche una discreta quantità di terreno coltivabile distinta in “mansi” ed assegnata in usufrutto a coloni liberi o dipendenti dello stesso monastero.
Il documento riconosce a Pietro, Abate di San Salvatore di Rio Sacro, il possesso di “tres mansos in Villa Bolonie” nonché della cappella di San Pietro “de Castello Mainardi” con le relative pertinenze.
Ritenendo determinante la “Bolla pontificia” ne riportiamo alcuni brani salienti in versione italiana: (… riceviamo sotto la protezione del Beato Pietro e Nostra il predetto monastero di San Salvatore di Rio Sacro nel quale per Divina Volontà prestate servizio, e lo muniamo di privilegio mediante il presente rescritto.
Prima di tutto, invero, stabilendo che l’Ordine monastico, che si sa essere istituito nel medesimo monastero secondo Dio e la Regola del Beato Benedetto, ivi in perpetuo inviolabilmente si osservi.
Ogni possedimento inoltre, ed ogni bene che lo stesso monastero giustamente e canonicamente gode al presente o in futuro per concessione di Pontefici, per largizioni di re o di principi, per offerta dei fedeli o in qualunque altro giusto modo potrà con l’aiuto di Dio essere acquistato, rimangano stabili ed intangibili a voi ed ai vostri successori.
Il luogo stesso ove il predetto monastero è ubicato con tutte le sue pertinenze: la Cappella di Sant’Angelo in Campicino, la Cappella di Sant’Angelo in San Ginesio; tutto quanto vi compete sulla chiesa di Santa Lucia di Recanati; la chiesa di San Giacomo di Macerata con le sue possessioni e pertinenze; tre mansi nella villa di Bolognola e tre mansi nel castello di Acquacanina; ciò che di diritto vi compete sulla chiesa di Santa Lucia in San Ginesio; la Cappella di San Pietro di Castel Manardo con le sue possessioni e pertinenze; il manso di Campicino; il manso di Lamandina, il manso di Pietro di Atto di Bonatto, tutti con le loro possessioni e pertinenze.
Tutte le possessioni di terra che sono sui monti di Pietralata, Collemondo, Vallefibbia, Fano Montanaro, Piaggia delle Vecciole con le selve e le loro pertinenze.
Riguardo poi agli uomini e ai terreni che coltivate con le vostre mani e a vostre spese, sia sui foraggi dei vostri animali, nessuno presuma esigere od estorcere decime da voi.
Decretiamo pertanto che a nessuno sia lecito intimorire e perturbare il Predetto monastero, o togliergli le proprie possessioni, o ritenere le offerte, diminuirle o gravarle di qualsivoglia vessazione, ma tutto sia conservato integro, ad uso esclusivo di coloro cui fu concesso che dovesse servire a governo e sostentamento, salva l’autorità della Sede Apostolica e la canonica giustizia del Vescovo diocesano.
E come prova che il medesimo monastero sia sotto la protezione del Beato Pietro e Nostra, pagherete a Noi e ai nostri successori due soldi di moneta lucchesi ogni anno.
Se dunque in futuro qualunque persona conoscendo questo contenuto della Nostra Costituzione tenterà di opporsi temerariamente ad esso e non intenderà riparare al proprio reato con congrua soddisfazione, sia privata della dignità del suo potere e del suo onore; sia riconosciuta rea con divino giudizio dell’iniquità perpetua ed allontanata dal Sacratissimo Corpo e Sangue del Dio e Signore Nostro Gesù Cristo Redentore e nell’ora estrema soggiaccia alla divina vendetta.
A coloro che rispetteranno i diritti del monastero sia pace dal Signore Nostro Gesù Cristo, ricevendo quaggiù il frutto della buona azione e presso il Giusto Giudice il premio della pace eterna, Amen, Amen.

+ Io Celestino, Papa della Chiesa Cattolica …. ).

Abbiamo anche altre notizie particolari provenienti dalle pergamene esistenti nell’archivio del Comune di Acquacanina che parlano del monastero. Nel 1287 Risabella di Gilberto di Falerone moglie del …. Quondam …. Bonoconte Rinaldo di Trasmondo, di Sant’Angelo in Pontano, con istrumento di donazione …. dona al monastero di Rio Sacro, la quarta parte dei beni da lei posseduti nel castello di Acquacanina.
Viene da porsi una domanda, perché proprio la quarta parte? Forse perché la legge longobarda non permetteva alle donne di alienare più della quarta parte dei beni del marito? Forse la ragione più probabile è che essa cedette alla Badia di Rio Sacro la sua “morgengabe” cioè il dono da essa ricevuto andando a nozze dal proprio marito e che doveva consistere nella quarta parte dei beni dello sposo.
La parola viene dal longobardo “morgen mattino e “gabe” dono, che e quindi il dono che la sposa longobarda riceveva il mattino dopo le nozze, quale omaggio alla sua verginità.
Nel 1298 si stipulò uno strumento di concordia tra il monastero di Rio Sacro e la comunità di Acquacanina, nello stesso 1298 si stilò altro strumento tra gli stessi contraenti in merito ai prati e ad altre spettanze del monastero di San Salvatore.
Al 1309 risale l’instrumento in cui Buccio, Nuccio e Luccio, figli di Giacomuccio di San Maroto, cedono all’Abate di Rio Sacro i loro beni situati in “contrata Monasterii Rigu Sacri et Aquacanine”.

Nel 1349 fu stipulato presso la chiesa di Santa Maria “de dicto Castro” l’atto recante un mandato di procura dell’Abate di Rio Sacro per la liberazione di diciotto uomini dal vassallaggio”.

Capitolo III

Altri insediamenti Benedettini
lungo la Valle

Comunque i monaci, nello stesso periodo ed anche successivamente, edificarono non solo il monastero di San Salvatore di Rio Sacro, ma provvidero a costruire lungo l’alta valle del Fiastrone altri monasteri e chiese:
1) – San Lorenzo al lago, antico insediamento italico e romano, probabilmente monastero benedettino, conserva la navata centrale e destra della chiesa e uno strato di affreschi duecenteschi, i più antichi del Camerinese.
2) – San Paolo, dentro le mura del castello Magalotti di Fiastra, con la sua possente struttura romanica delle tre navate, alta sulla scarpata di mezzogiorno ancora in parte circondata e protetta dai ruderi della cinta fortificata dei Magalotti.
Afferma Allevi che “… San Paolo possa essere stata Abbazia, e ciò viene, oltre che dal parroco che conserva ancora il titolo di Abate, dalle numerose conferme contenute nella causa discussa nei primi dell’Ottocento per la priorità di San Paolo quale patrono tradizionale del comune ed il rifiuto della sua sostituzione con San Lorenzo titolare della prepositura parrocchiale nei pressi del lago.
3) – Chiesa del Beato Ugolino. Quando Ugolino morì, nel 1373, la chiesa che sarà intitolata al Beato, apparteneva alla parrocchia di San Flaviano ed era un monastero benedettino in abbandono, intitolato a San Giovanni Battista, il santo dei deserti. Dopo che vi furono riposte le spoglie di Ugolino, il complesso rinacque, e negli atti si comincia ad abbinare il nome del precursore di Cristo a quello del penitente francescano “ecclesia S. Joannis Battistae et S. Ugolini”.
Per la popolazione, d’ora in poi esisterà quale centro di culto e vita religiosa di tutte le comunità della valle solo quella del Beato Ugolino.
4) – La chiesa, oramai scomparsa, di San Pietro di Castel Manardo, i cui resti resistevano al tempo del Bombaci e che questi li scopriva a Costa Manarda.
5) – L’Abbadia di Santa Maria in Insula, nell’attuale frazione di Monastero, come vedremo, sarà riformata da San Romualdo.
6) – Santa Maria di Rio Sacro o di Meriggio. Quando i nostri monaci trovarono la vita al Monastero di San Salvatore di Rio Sacro troppo dura causa l’asperità del luogo, decisero di abbandonare la sede primitiva per un luogo più ameno e scelsero proprio la chiesa di Santa Maria di Meriggio quale nuova dimora.
Quando avvenne il trasloco non lo sappiamo.
Nella Bolla pontificia la Santa Sede da alla nostra Abbadia il suo titolo primitivo di “… San Salvatore di Rio Sacro” mentre una volta trasferitasi l’Abbadia si chiamò “Santa Maria di. Rio Sacro, quindi nel 1192 il convento non si era ancora trasferito.
Nel 1349, presso la chiesa di Santa Maria di Rio Sacro, come abbiamo visto sopra, era stato affidato un mandato di procura all’abate di Rio Sacro.
Se ancora fosse esistito il monastero si San Salvatore di Rio Sacro, l’affidamento sarebbe stato effettuato presso il monastero e non presso la chiesa, quindi l’abate si era già insediato nell’Abbadia stessa di Santa Maria di Merigggio, per cui il trasferimento dovrebbe essere avvenuto tra il 1192 ed il 1349.
Possiamo immaginare che i Benedettini nel lasciare il loro convento asportassero quanto era possibile trasportare onde abbellire la nuova Abbadia di Meriggio; indubbiamente trasportarono anche il Crocifisso, tanto caro ai monaci per la sacra immagine, sostegno della loro fede; ed ecco che la leggenda si sostituisce alla storia.
Si narra che il giorno successivo del trasferimento si accorsero che il Crocifisso era scomparso e dopo una lunga ricerca lo ritrovarono nella vecchia dimora.
Tentarono un nuovo trasporto, ma la Croce risultò talmente pesante che nemmeno due paia di buoi riuscirono a trasportarla. La notizia si sparse per tutta la vallata e fu un accorrere di popolo a venerare il miracoloso Crocifisso.
Allora i monaci costruirono nell’Abbadia di Meriggio una particolare cappellina; piacque al Cristo la nuova ubicazione ed “il Crocifisso abbandonò definitivamente San Salvatore di Rio Sacro”.
Purtroppo il Crocifisso, che per secoli e stato simbolo di fede in questa valle, e stato rubato e sicuramente venduto come oggetto di antiquariato.

Capitolo IV

San Romualdo e la sua riforma
Santa Maria in Insula e la sua storia

L’alta valle del Fiastrone, ha una tradizione schiettamente benedettina.
Una figura significativa e quella di Romualdo, santo ravennate, figlio del duca Sergio, nato nel 952 e morto il 19 giugno 1027 all’età di 75 anni.
Secondo San Pier Damiani, San Romualdo, che avrebbe condotto per molti anni vita eremitica, era un uomo di forte ingegno, di tenaci propositi, di coraggio indomabile, mite, gioviale.
Di carattere tutto singolare, sembra che non potesse avere un domicilio fisso; le sue peregrinazioni furono lunghe e continue e tra i vari paesi toccò anche il territorio di Camerino.
In tutte queste peregrinazioni, interpretando rigorosamente lo spirito della “Regola” di San Benedetto, cercò di riaffermare in seno ai monasteri benedettini la necessita della vita eremitica.
San Romualdo, visitando il Camerinese tra il 1005 e il 1009 rinsaldò l’eremitaggio di Rio Sacro.
L’intensa vita spirituale, alimentata dal lavoro e dalla preghiera, non tardò a produrre frutti di specchiata santità. Nel 1030 fiorirono in San Salvatore un S. Ronaldo da Camerino e un S. Firmano da Fermo il quale vi ricevette l’ordinazione sacerdotale (come attesta San Pier Damiani).
Sopra i loro corpi, scrive San Pier Damiani, per volontà dell’assemblea sacerdotale, sono stati eretti i sacri altari ove si celebrano i divini misteri rendendo testimonianza ai loro miracoli.
San Romualdo rifondò anche l’Abbadia, oggi in parte ristrutturata, in posizione isolata a valle, dell’attuale frazione di Monastero, chiamata allora “Santa Maria in Insula” oggi San Salvatore.
Difatti durante i lavori di restauro dell’abbadia sono apparse, a conferma, strutture precedenti di stile Romualdino e quattro torri ad impianto Ravennate.
Intorno al 1050, sotto il Vescovo di Camerino Atto, i Benedettini di Santa Maria in Insula, furono chiamati entro le mura di San Ginesio per officiare le funzioni nella chiesa di San Pietro, oggi San Francesco, costruita a Capocastello e pertanto dovettero, per obbedienza, lasciare la loro abbadia.
Per ordine di Onorio III, circa duecento anni dopo, i monaci furono costretti a ritornare di nuovo alla vecchia abbadia, pena la soppressione dell’Ordine.
Lasciarono la chiesa di San Pietro ad un sacerdote diocesano e ad un fratello laico.
Trovarono la chiesa ed il monastero in pessime condizioni. A Monastero tuttavia non rimasero in pace e continuarono poi a non avere vita facile poiché lo stesso Onorio III, nel 1226, in il monastero alla mensa vescovile di Senigallia.
I Ginesini non furono contenti di questo provvedimento poiché il monastero di Santa Maria dell’Isola passò dalla giurisdizione del Vescovo di Camerino a quella di Spoleto.

Nel 1229 “Rinaldo”, legato imperiale della Marca di Ancona e Duca di Spoleto, restituì Santa Maria dell’Isola a San Ginesio confermandole tutti gli acquisti fatti precedentemente tra cui anche il castello di Isola (fraz. Monastero).
L’Abbadia ha la cripta, magnifica nella sua struttura, con le volte a crociera sorrette da nove colonne ed un pilastro.
Qui furono ritrovati frammenti di laterizio di origine romana. Fino ad alcuni anni fa, adiacente all’Abbadia era visibile un museo di materiali rinvenuti durante gli scavi di sistemazione dell’Abbadia stessa, allestito da padre Natale Sartini, ora conservato all’interno dell’abitazione del parroco.

Capitolo V

I Cistercensi e l’Abbadia di San Pietro
in Valle di Ferentillo

Un’altra corrente dell’ordine di San Benedetto varchera la nostra valle, quella dei Cistercensi.
Da una bolla di Gregorio IX del 1231, emergono i traguardi segnati dall’abbadia di San Pietro in Valle di Ferentillo nella marcia di espansione dall’Umbria verso le Marche, l’Abruzzo, il Molise.
Secondo una direttrice ben precisa i suoi monaci attraversavano il valico di Visso, per Macereto, Fiastra, Pian di Pieca, San Ginesio, Colmurano, Urbisaglia, Petriolo, Corridonia e scendevano verso la bassa valle del Chienti.
Quindi la nostra valle veniva attraversata da cima a fondo per cui, sicuramente, il comprensorio doveva essere stato assoggettato religiosamente all’abbadia di San Pietro in valle di Ferentillo.
Gregorio IX, il 15 novembre 1235 concesse al suddetto monastero vari privilegi ed immunità perché fosse esempio di perfezione nel capo e nelle Membra”.
Il desiderio del, Papa non dovette trovare seguito, perché la situazione religiosa ed economica dell’abbadia doveva essere divenuta assai difficile, se tre anni dopo, nel 1234, l’Abate Matteo si rivolse a Giasone, abate di S. Maria di Chiaravalle di Fiastra pregandolo di riformare il suo monastero secondo la regola cistercense.
L’abbadia di Ferentillo risulta essere stata la prima abbadia incorporata alla Chiaravalle di Fiastra. La seconda per intercessione sempre di Gregorio IX nel 1262 sarà quella di San Giuliano al Monte di Spoleto. Poi ne seguiranno altre.

Capitolo VI

Il monaco e l’eremita

Abbiamo visto fin qui una fervida vita monastico-benedettina scorrere per tutta l’alta valle del Fiastrone che interpretava in piena regola le direttive del Santo il quale divise i monaci in eremiti o anacoreti e cenobiti o monaci propriamente detti.
Lo stesso San Romualdo, per seguire le orme di San Benedetto, divise la sua congregazione camaldolese in due luoghi ben distinti, il sacro eremo di Camaldoli e più in basso il cenobio.
Eremita nel senso etimologico della parola è colui che per motivi religiosi si apparta dal mondo non solo spiritualmente ma anche materialmente, vivendo solitario in luoghi remoti, dedito alla contemplazione ed alle pratiche ascetiche, conducendo una vita eccezionalmente austera.
A quel tempo, presso ogni monastero o abbadia, in luogo boscoso e solitario vi era il cosi detto “Romitorio” ove vivevano, per tutto il tempo desiderato, monaci particolarmente inclini alla preghiera ed alla penitenza: esso sorgeva presso qualche vena di acqua ed i monaci si accontentavano di pane e di erbe crude, di funghi e di bacche, di castagne e altri frutti del bosco che trovavano all’intorno.
Quale luogo può offrire la lontananza dal mondo, una protezione naturale e la vicinanza con Dio se non una grotta ubicata in luoghi montani, orridi, inaccessibili, specialmente se nelle vicinanze vi sgorga una sorgente d’acqua?
Proviamo ad immaginare ora i nostri monaci, gia insediati in luoghi difficili che si appartano in una grotta, per dedicarsi alla contemplazione conducendo vita austera e facendo penitenze terribili ai nostri occhi, per entrare nel regno dei cieli.
Li univa soprattutto il rifiuto di una società che tra inettitudine, corruzione e violenza barbarica stava marcendo.
L’eremo per San Romualdo significava non solo colloquio con Dio ma anche lotta contro il demonio. L’eremita, dopo tanti successi ottenuti coll’aiuto di Dio, ancor più e meglio risulterà vittorioso sul mondo e così potra svolgere la sua missione tra laici empi e deviati da convertire e convincere a mutare vita.

Capitolo VII

Le Grotte nell’alta Valle
e i sentieri che li uniscono

Se osserviamo attentamente la nostra valle attraverso la carta topografico-militare troviamo tutta una serie di grotte, scavate dalle acque o naturali, che nel corso dei secoli passati potrebbero essere state utilizzate anche dai nostri monaci-eremiti in quanto ubicate in zone alquanto vicine agli insediamenti stessi.
Solo per la “Grotta Dei Frati” abbiamo una documentazione certa, per le altre si può presupporre che siano state utilizzate in quanto hanno tutte le caratteristiche già descritte.
Risaliamo la valle del Fiastrone, dalla frazione di Monastero, cioè dall’abbadia di Santa Maria in Insula oggi San Salvatore, percorrendo lo stesso sentiero che probabilmente utilizzavano i monaci all’epoca, per arrivare ad Acquacanina – Bolognola, San Salvatore di Rio Sacro.
Dall’abbadia di San Salvatore, scendiamo al Fiastrone e risaliamo il versante opposto. Troviamo tutta una serie di grotte.

1) Iniziamo con la “Grotta dei Frati”, utilizzata dai Benedettini prima, successivamente lasciata ai Francescani. Ci sono ancora le grotte dette dei Partigiani, delle Capre, delle Penitenti o “delle Monache”.
Poco prima della Grotta dei Frati un sentiero si inerpica su per la montagna dentro una conca; qui sono ben visibili i corrugamenti delle rocce che le forze della natura hanno plasmato; il sentiero sbocca su un piccolo ripiano, una roccia che si protende a picco nel vuoto e fa da balcone alla valle.

2) Di li a poco il sentiero inizia la discesa ed interseca un altro sentiero che porta alla Grotta grande, oggi accessibile solo con attrezzatura alpinistica. Di fianco un cunicolo a gradoni avrebbe potuto ospitare una persona al massimo.
La grotta è ben visibile dallo spuntone di roccia che sovrasta lo scoglio di Sant’Egidio.
Ancora in dolce pendio il sentiero oltrepassa le “lame rosse”, suggestiva ed impareggiabile gola che l’impetuosità delle acque ha scavato lasciando conglomerati di ghiaia a forma di fungo, alti decine di metri, quasi a protezione dell’angusto passaggio che sfocia nel fosso della Regina al cui termine uno strapiombo accoglie, nei giorni di temporale, una cascata d’acqua di oltre cento metri, detto salto della Regina.

3-4) Il sentiero scende ancora e si avvicina alla Valle di Nicola ove sono ubicate due grotte, quella propriamente detta Di Nicola e la grotta detta del Beato Ugolino.
Il sentiero diventa strada imbrecciata e nelle vicinanze troviamo l’ex chiesa di San Giovanni ora dedicata al Beato Ugolino ove riposano le sue spoglie.
La strada poi, sale fino al paese di Fiastra, alla cui sommità svetta il castello dei Magalotti.
Dentro le mura troviamo la chiesa abbaziale di San Paolo.
Qui siamo oramai nel centro urbano per cui il sentiero che fino ad ora ci ha guidato, lascia posto all’asfalto, al cemento, alla confusione, per cui dobbiamo orientarci un po’ ad occhio.

5) Saliamo verso Acquacanina: nelle vicinanze dell’abbadia di Santa Maria di Meriggio, posta nell’altro versante del monte, sopra la Madonna del Vallone c’è la grotta del Maciniccio.

6) Risalendo ancora dall’abbadia di Santa Maria di Meriggio e riprendendo il vecchio sentiero per Monte Valle Fibbia, attraverso la Forcella e nei dintorni del primo insediamento monastico, l’abbadia di San Salvatore di Rio Sacro, e la grotta dello Scortico. Questi luoghi avevano delle sorgenti come Sott’Acqua, Fonte del Beato Ugolino, Fonte Palomba, Fonte Moscia, Fonte della Pernice ecc, che oggi per problemi idrici sono state captate e di acqua ne forniscono più poca.

Abbiamo ancora:

7) Grotta del Lavatoio.
8) Grotta dei Partigiani.
9) Grotta e secondo convento.
10) Grotta delle Capre.
11) Grotta delle Monache.
12) Scoglio e grotta di Sant’Egidio.
Delle quali parleremo più avanti.

Capitolo VIII

I Francescani ed il Francescanesimo

La crisi, che tra il 1200 e il 1300 coinvolge il cenobitismo benedettino, favorisce l’irrobustimento delle correnti eremitiche e prepara l’avvento dei “mendicanti francescani” non subordinati, come i loro predecessori, al potere feudale e quindi in grado di raggiungere una trionfale affermazione.
Nel 1182 nasce in Assisi Francesco, da una ricca famiglia di mercanti, cresce viziato dai genitori che ripongono le loro ambizioni in quell’unico figlio.
A 22 anni partecipa alla guerra che Assisi porta contro Perugia e nel 1204 fu catturato dai Perugini ed imprigionato.
Ritornato in Assisi si ammala gravemente. Una profonda crisi esistenziale e religiosa lo porta a rinunciare alle sue condizioni sociali e si fa povero tra i poveri.
All’età di 27 anni, nel 1209, traendo ispirazione dalle parole del vangelo “… andate e predicate… non tenete oro ne argento … ne sacca da viaggio, ne due vesti, ne scarpe, ne bastone …”, restituito il proprio abito al padre, riceve da un amico una rozza tunica dei contadini umbri che stringe ai fianchi con una ruvida corda.
Da questo momento dedica la sua vita al servizio di Dio.
La grandezza del suo proposito e il sommo valore dell’entusiasmo di rinnovamento che si accende in Francesco, fa si che il Papa Innocenzo III approvi verbalmente la “Regola”.
Più tardi la Regola fu più volte rielaborata e discussa, ma il principio di tutto sta…: “nell’osservare lo Vangelo di nostro signore Gesù Cristo, vivendo in obbedienza santa, e senza niuno bene temporale o proprio e in castità…”.
Il 3 ottobre 1226 la morte lo colse e solo in quel momento tutti poterono contemplare le stimmate da Francesco sempre gelosamente occultate, come dono di Dio.
Il messaggio spirituale di Francesco fu accolto da tanti altri giovani e verso la fine del duecento il francescanesimo raggiunse la Grotta dei Frati.
Infatti tale insediamento monastico dai Benedettini seguaci di San Romualdo di Santa Maria in Insula passò ai frati “spirituali” difensori sino all’estremo dell’osservanza stretta della “Regola” dettata da San Francesco.
Nella zona, la figura più rappresentativa degli spirituali e quella di Angelo Clareno. Nel 1247 nacque a Fossombrone, a ventitré anni vestì l’abito francescano nel convento di Cingoli.
Di carattere austero, intransigente e propenso al misticismo di Gioacchino da Fiore, egli si affermò quale deciso difensore della Regola di San Francesco.
Egli fece causa comune con i frati “Zelanti” capitanati nella Marca di Ancona da religiosi famosi quali Pietro da Macerata, Tommaso ed Angelo da Tolentino.
Nel 1293 si ritirò dopo varie vicissitudini nell’eremo di Chiarino (donde il soprannome Clareno).
Eletto Pontefice Celestino V, ebbe da lui il permesso di costituire una congregazione autonoma di religiosi sottratta ai superiori dell’ordine, consentendo loro di chiamarsi “eremiti di Papa Celestino”.
Più tardi si attribuirono un appellativo definitivo: “Frati della povera vita di Celestino” ed il popolo cominciò a chiamarli “Fraticelli”.
Tacciati anche di eresia subirono il carcere, l’inquisizione, angherie varie ed alcuni finirono sul rogo.
Nell’alpestre solitudine di S. Maria d’Aspro, il Clareno, morì il 15/6/1337 all’età di circa 90 anni, sessanta dei quali passati fra lotte e disagi di ogni genere, coraggiosamente sopportati per attaccamento alle sue convinzioni di una vita spirituale che poteva essere attuata solo ritornando alla osservanza letterale della Regola e del testamento di San Francesco.
La soppressione della loro congregazione sarà decretata da Pio V nel 1568.
I Clareni saranno poi assorbiti dai frati Minori osservanti.

Capitolo IX

La Grotta dei Frati

Nella grotta più grande fu eretta una piccola chiesa che, conosciuta fin dal 1234, fu dedicata prima a Sant’Egidio, eremita. Uno sperone di roccia che si staglia dirimpetto alle grotte, su cui si dice che egli fosse solito sostare in preghiera e meditazione, viene oggi chiamato con il suo nome.
I Clareni poi intitolarono la chiesetta a Santa Maria Maddalena o Santa Maria Maddalena de specu.
I Fraticelli, preso possesso di questo luogo provvidero a rendere più agibili le rocce che a strapiombo si affacciavano sul Fiastrone.
Osservando attentamente la consistente opera edile eseguita dai frati, si può a buon motivo presupporre che essi prima costruissero la cisterna onde poter disporre di una abbondante quantità di acqua necessaria per spegnere la calce che unitamente all’argilla costituiva l’elemento di base per cementare le pietre utilizzate nella costruzione.
Di fatto i tre colmi di accesso dell’acqua alla cisterna sono collocati tutti verso il basso per permettere all’acqua di entrare e non di uscire. Siccome non vi sono fori d’uscita i frati sfruttavano anche la minima goccia che entrava nella cisterna.
Alla base del lato più alto e stato costruito un bacile che permette di raccogliere i detriti o residui provenienti dalla pulizia della vasca stessa, per cui chi l’ha progettata ha considerato anche il futuro utilizzo dell’acqua proveniente dallo stillicidio dei colmi e della roccia lasciata allo stato naturale che e ben visibile in fondo alla cisterna.
Effettuavano lo spegnimento della calce nell’incavo naturale che si trova tra la grotta grande e quella del lavatoio: ancora oggi è visibile, la fascia bianca lasciata dalla calce nella parte più in basso della roccia.
Dopo la cisterna, avendo necessità di una base di appoggio in piano, probabilmente avranno dedicato i loro sforzi alla costruzione dei muri di sostegno del perimetro esterno, alcuni tuttora ben visibili, per poter disporre di un piano di appoggio stabile per la costruzione del convento.
Il muro che cinge la parte ovest dell’eremo, verso la grotta detta dei “Partigiani”, mostra uno spessore di notevole consistenza ed e stato spiccato sfruttando ogni più piccola possibilità di appoggio della roccia che va a picco verso il fiume.
Sul terreno ormai livellato e stabile hanno provveduto a costruire il convento realizzandolo su un piano terra, primo piano e sottotetto; il piano terra in parte rimane sepolto sotto le macerie, ma da quanto e visibile si intuisce che questo era attraversato da un corridoio che immetteva sulle varie stanze o celle. Dalla stanza che risulta essere la più grande e probabilmente adibita a refettorio, si può accedere all’interno della grotta passando dietro l’altare.
Al primo piano si accedeva tramite una rampa di scale tuttora intatte che si ergono alla destra dell’entrata alla grotta.
Giunti alla sommità, rivolgendo lo sguardo verso destra e quindi contro la roccia, si notano i fori di appoggio delle travi che costituivano il solaio del sottotetto nonché quelli del tetto che per non subire infiltrazioni di acqua era stato infilato in un taglio di roccia trasversale fatto dai frati stessi.
L’eremo è di dimensioni notevoli considerando che le mura di sostegno si defilano lungo la roccia per una sessantina di metri e dall’entrata della grotta agli ultimi ruderi del convento ci sono venticinque metri. Nel 1587 ci vivevano sette frati, uno in meno che a San Liberato. A titolo di cronaca, alcuni decenni prima avevano tentato di ottenere il luogo i Cappuccini, con l’appoggio della duchessa Caterina Cibo, sposa di Giovanni Maria Da Varano Duca di Camerino e nipote di Clemente VII.
Malgrado questo autorevole appoggio, i Cappuccini non riuscirono ad impadronirsi di questo luogo e forse vi rinunziarono di proposito.
La petizione al Pontefice, della contessa Cibo merita di essere conosciuta, almeno nei suoi tratti principali, perché è documento storico della presenza dei Clareni nel piccolo convento della grotta.
Ne diamo il testo in italiano: “Santo Padre, nel ducato e diocesi di Camerino, tra il castello di Montalto e Monastero, esiste una grotta detta volgarmente la Grotta di Santa Maria Maddalena, che i nostri antenati hanno concesso ai frati Clareni detti allora “Eremiti di San Francesco a patto che avessero osservato la Regola e condotta vita eremitica, assoggettandoli alla giurisdizione del vescovo di Camerino … I quali frati da molto tempo non conducono più vita eremitica, non osservano in nessun punto la Regola di San Francesco, menano vita dissoluta con scandalo delle popolazioni vicine.
Avendo avuto notizia della scarsezza del bene da essi operato e che da qualche tempo hanno posto mano alla costruzione di un nuovo monastero presso la Grotta (un edificio posto a valle della grotta stessa) con l’intento, come si dice, di abbandonarla”.
La duchessa desidera che i frati, che sono in numero di quattro o sei al massimo, siano rimossi dal luogo e al loro posto vengano collocati alcuni religiosi dello stesso ordine di San Francesco: fra Ludovico e fra Raffaele da Fossombrone, fratelli germani, con alcuni compagni i quali non solo osservano la Regola di San Francesco ma anche conducono vera vita eremitica, servendo Dio con grandissima povertà.
Nel 1652, in occasione della soppressione di alcune piccole comunità, il convento della Grotta fu affiliato a quello di Colfano, il cui superiore provvedeva, nei giorni festivi o ricordativi, al servizio religioso per i pastori e per i carbonai della zona. Col passare del tempo, non essendoci più una vera comunità, si ebbe il degrado dell’ambiente e la vegetazione prese il sopravvento, il terriccio ed i detriti portati dalle acque che dall’alto scendevano verso il Fiastrone, invasero l’interno della grotta che rimase quasi interamente sepolta.
Negli ultimi anni, grazie ai sacrifici di uno dei frati Minori di Colfano, i detriti sono stati asportati dall’interno della grotta che è tornata come era allo stato primitivo con la sua chiesetta, con la cisterna, l’altare ecc.
Oggi, credo, a nessuno verrebbe in mente di vivere in questi ambienti. Tuttavia la grotta, non solo testimonia una pagina di storia, ma è anche l’espressione concreta della spiritualità che ha trasmesso a noi i grandi valori dell’esistenza e del soprannaturale.
Grazie alla perseveranza di padre Natale Sartini, che oggi, quasi novantenne, ancora incoraggia quelli che spontaneamente si sentono di dargli una mano a tenere pulito il luogo, con il suo motto “avanti, sempre, avanti”, rimane aperta questa finestra sulla storia.
Ciò che ha spinto padre Natale a superare tante fatiche ed ostacoli, e stato il desiderio di poter ritornare in questo luogo di preghiera, anche per pochi giorni all’anno, e farlo rivivere provvedendo al servizio religioso come faceva il superiore di Colfano nel lontano 1652.
Finalmente il 9 aprile 1989, padre Natale insieme ai volontari, a testimonianza della spiritualità vissuta nella grotta, hanno posto, una statua di San Francesco e la rappresentazione della Natività.
Due volte all’anno, cioè la seconda domenica di aprile e l’ultima domenica di dicembre, l’umile frate ripercorre quei sentieri che avevano fatto gli eremiti per dire messa e ringraziare il Signore.

7) Oltre alla grotta grande ve ne sono altre due ai lati, la prima di modeste dimensioni, ha sul fondo, dirimpetto all’entrata, un muretto di sostegno ed una piccola vasca simile ad un lavatoio o ad una fonte utilizzata dalla comunità.
Di qui l’appellativo di “Grotta del Lavatoio”.
Forse l’esaurimento della sorgente, per abbassamento della falda idrica, segnò la fine del monastero.
Per l’acqua, certamente gli eremiti non potevano scendere al fiume, ne potevano utilizzare l’acqua della cisterna, che, non avendo ricambio, diventava stagnante. Poteva essere utilizzata per la pulizia personale e per gli animali: qualche capra o asino.

8) All’altra grotta che si trova oltre l’eremo si accede da un sentierino molto angusto.
L’accesso alla grotta e ampio ma di modesta altezza. E’ ubicata a strapiombo, sul vuoto, con un salto di 250 metri a picco sul Fiastrone. All’interno e stata posta una Madonnina.
E’ chiamata Grotta dei Partigiani perché nell’ultimo conflitto vi hanno trovato rifugio gli uomini della resistenza delle frazioni vicine.

Capitolo X

Il secondo Convento

9) Ritornando indietro, verso valle, nello stesso versante, troviamo il secondo convento citato da Caterina Cibo nella sua petizione (“…. e che da qualche tempo hanno posto mano alla costruzione di un nuovo monastero presso la Grotta …”).
Anche qui i frati hanno utilizzato una grotta scavata dalle acque e vi hanno addossato la costruzione in muratura.
La grotta è notevolmente più piccola della prima e quasi completamente coperta dai detriti e dal terriccio.
Comunque nella parete esterna si notano in maniera chiara i fori fatti per l’appoggio delle travi che andavano sicuramente a collocarsi, dal lato opposto, sopra il muro del monastero che si trova immediatamente dirimpetto, a qualche metro di distanza.
Dal taglio delle pietre e dal tipo di pietra utilizzata si nota che la costruzione e molto più recente della prima e limitata a due o tre stanze al massimo.
Adiacente, coperta dalla vegetazione, ci dovrebbe essere una sorgente, visto che a una cinquantina di metri più in basso esce acqua molto ricca di calcare.
Dalla presenza di alcune piante di viti che per guadagnare la luce sono diventate alte quanto i faggi, si può dedurre che i frati sicuramente coltivavano un piccolo orto.
Il posto e incantevole: grossi faggi fanno da ombrello al monastero, la luce, attutita, filtra attraverso il fogliame delle piante. Il silenzio è rotto dal quieto rumore delle acque che scendono a valle.
Se continuiamo per il sentiero, dopo aver attraversato il fiume su di un tronco d’albero e, risalita la valle per pochi minuti, ci troviamo in una gola le cui rocce si restringono sempre di più fino a toccarsi con le mani: siamo nelle “Forre”.
Se si vuol risalire ancora il fiume si può godere uno spettacolo eccezionale.
Le acque hanno scavato la roccia scendendo attraverso grotte ed anfratti formando un grazioso laghetto, la vegetazione ricopre le rocce che a picco formano le Forre.

In pochi minuti, ci troviamo in una gola le cui rocce si restringono sempre di più fino a toccarsi con le mani: siamo nelle “Forre”.
Se si vuol risalire ancora il fiume si può godere uno spettacolo eccezionale.
Le acque hanno scavato la roccia scendendo attraverso grotte ed anfratti formando un grazioso laghetto, la vegetazione ricopre le rocce che a picco formano le Forre.

Capitolo XI

Le grotte delle Capre
e le altre grotte

10) Prima di entrare nelle Forre un sentiero si inerpica sulla riva sinistra del fiume, guardando verso la diga di Fiastra, per condurci alle Grotte delle Capre.
Qui la natura è stata ancora più bizzarra; tutta una serie di grotte sono predisposte su due tagli obliqui di roccia ed un po’ carponi un pò chini si riesce a visitarle tutte.
In queste grotte le capre si rifugiavano fino a qualche decina di anni or sono. Per gli abitanti di questi luoghi la capra era in passato un valido sostegno economico.
Queste grotte potrebbero avere ospitato quel “Fra Michele Minorita”, la cui tragica fine ha avuto l’onore della stampa.
I testi ci assicurano che egli viveva nelle Marche, insieme ad altri romiti, e che gli era compagno un camerinese che poi lo abbandonò nascosto in una grotta che negli atti del processo e indicata come “grocta deorci joffensi” che altro non sarebbe che la “Grotta delle capre selvatiche”, in territorio degli Offoni.
Non essendo state rintracciate nel territorio di Soffiano grotte con detto appellativo, e poiché le nostre “grotte delle capre”, sono ubicate non molto lontano da San Liberato – Soffiano, considerato che il monte Ragnolo lambisce la valle del Fiastrone, si potrebbe presupporre che queste siano le grotte di cui parla l’anonimo trecentista.
La nostra valle e stata teatro di resistenza dei partigiani nel periodo conclusivo dell’ultimo conflitto e, nei tempi più antichi, luogo di rifugio di questi strani partigani di Francesco che per rimanere fedeli al loro spirito sfidarono il tribunale della Santa Inquisizione e tanti, come fra Michele Berti da Calci detto il Minorita, riconosciuti colpevoli, conclusero la loro vita sul rogo.
La sentenza che condanna a morte il povero penitente, pronunciata il 30 aprile 1389, lo accusa di essere “…uomo di mala condizione, di pessima conversazione, vita e fama, eretico e di eretica labe polluto,” nemico del genere umano, scientemente con l’animo e l’intenzione di esercitare eretica pravità Michele stette e converso con i Fraticelli della povera vita, eretici e scismatici, riprovati dalla santa romana Chiesa, seguì la loro setta ed eresia in un luogo (della Marea detto la grotta “dieci Joffensi”: quindi, per contaminare i cattolici ed i fedelissimi cristiani, venne nella città di Firenze ed in pubblici luoghi divulgò le seguenti eresie: che Cristo nostro redentore non ebbe cosa alcuna in proprio o in comune con altri, ma di tutte le cose che la sacra scrittura attesta ch’egli avesse, esercitò il semplice uso di fatto, che Cristo e i suoi apostoli non ebbero di vendere o donare quelle cose o con esse acquistarne altre…”.
Questo sta a dimostrare quanto di poco conto fosse tenuta la vita di chi osava essere in disaccordo con i facoltosi ecclesiastici al quali certamente non piaceva essere messi in discredito da poveri frati mendicanti che praticavano la povertà di Cristo.

11) Più in alto ci sono ancora le Grotte denominate delle Penitenti o delle Monache.
Probabilmente quindi, come vuole la tradizione, anche qualche donna sarà salita fin lassù per condurre vita eremitica.
Nella vicina zona di Sarnano figura anche il vocabolo “Lu colle delle Bizzoche” in quella stessa zona vi era pure un “Locus Heremitorum”.
Si tratta quasi certamente di donne legate al locale convento di San Francesco; erano chiamate semplicemente monache di San Francesco o, perdonateci la brutta espressione, dice l’autore, “infratate”.
In un atto testamentario conservato all’archivio notarile di Sarnano “Margherita, figlia di Ruggeri Zocchi detta le sue ultime volontà, stabilendo, che … Item lu corpu suo … vuole essere seppellita nella chiesa di San Francesco nella sepoltura delle monache infratate….
Il titolo “penitenti o monache” dato alle grotte dovrebbe confermare la presenza di queste Francescane.

12) Sopra le Grotte delle capre, in alto, quasi a sovrastare tutta la vallata c’è lo Scoglio di Sant’Egidio, l’eremita, con una piccola grotta ubicata alla base dello scoglio.
Essendo l’arrampicata troppo impervia e ripida, invece di salire dalle Forre, vi si può accedere da un sentiero, ora riaperto, il cui imbocco si trova sulla statale Pian di Pieca – Fiastra, oltre la frazione di Monastero.

Capitolo XII

Il Beato Ugolino da Fiegni

Abbiamo parlato dei penitenti francescani: ed ecco risuonare in località Fiegni la fama di un altro personaggio di spicco, vissuto come Terziario, il Beato Ugolino.
Gli autori che parlano del Beato, attingono, le loro notizie da un manoscritto latino, che si dice conservato ab antiquo nella chiesa di Fiegni ma di cui non si trova traccia, anzi si dice già perduto quando il parroco Domenico Pasini, morto nel 1662, ebbe a redigere la storia del Beato Ugolino attingendo il racconto da una copia “riassuntiva” ma concordante con il codice.
Lo storico camerte Camillo Lili, attinge notizie da una copia in possesso di un suo amico e non dall’originale.
Pertanto non esistono fonti storiche certe sulla sua vita.
Riportiamo qui brevemente le note biografiche tramandate in cui, a volte, la storia e la leggenda si confondono.
Egli nacque a Fiegni intorno al 1320.
Le sue origini si fanno risalire alla famiglia Magalotti; da Magalotto IV e da Lucia che morì durante il parto.
Il bambino, orfano di madre, fu cresciuto dal padre, Magalotto, che, si dice, morì quando il giovane Ugolino aveva 13 anni.
Passò del tempo ed anche per il giovane Ugolino venne l’amore.
A Visso aveva conosciuto una ragazza di buona famiglia, Clara dè Riguardati e se ne era innamorato follemente. Sennonché la fanciulla sfuggiva il giovane conte di Fiastra, in quanto aveva deciso di farsi monaca ed entrare nel convento di Santa Chiara, aperto a Visso.
La vista della ragazza che aveva preso il velo per amore di Dio scosse profondamente l’animo del conte Ugolino che meditò a lungo sull’accaduto, presso il santuario di Macereto.
In tale santuario tuttora nel plinto di sinistra del portale principale, e scolpito in bassorilievo un monaco, vestito di rozzo saio, stretto ai fianchi da una corda: con la sinistra regge un libro, con la destra il cuore, quasi ad indicare lo strazio di rinunzia ad ogni amore profano.
Rattristato anche da questa esperienza o forse guidato dalla scelta di “Clara” decise di vendere la proprietà lasciatagli dal padre e si ritirò in eremitaggio.
Come abbiamo visto, era fiorente a quei tempi presso Acquacanina, l’abbadia di Santa Maria di Rio Sacro: luogo fatto per la contemplazione solitaria in una natura aspra e selvaggia.
Lì Ugolino avrebbe potuto scegliere la sua dimora di asceta, ma l’ordine Benedettino era una comunità aristocratica in cui vigeva la proprietà, sia pure in senso collettivistico.
Egli invece sentì più forte il richiamo della perfetta povertà, e dopo aver venduto tutti i beni, seguì la via del Poverello di Assisi.
Scelse quale luogo per la meditazione una piccola grotta ubicata in Val di Nicola, tra quelle meravigliose montagne che tanto spesso lo avevano suggestionato.
Considerata la vicinanza con la Grotta dei Frati ed il sentiero comune ad entrambe le grotte, probabilmente Ugolino ebbe contatto con i Fraticelli Clareni.
In questo luogo dimorerà per trent’anni vivendo in unione di preghiera e di meditazione Con Dio, tra digiuni ed astinenze, contento di nutrirsi con quello che riceveva in elemosina ed erbe e radici.
Lo ristorava l’acqua della sorgente a cui la tradizione ha lasciato il nome del Beato perché sarebbe stata fatta da lui stesso scaturire. La sorgente fu sistemata a fontana con abbeveratoio nel 1791.
Egli operò meravigliosi interventi a favore di quanti, attratti dalla fama della sua santità ricorrevano a lui fiduciosi.
Finì la sua vita l’11 dicembre 1373. Dopo la morte il corpo venne trasferito nel vicino castello di Fiegni, presso la chiesa di San Giovanni, che sarà poi intitolata al Beato Ugolino.
Nel 1856 il P. Francesco da Lucca, postulatore generale dell’ordine dei Frati Minori osservanti, presentava l’istanza per il riconoscimento ufficiale del culto del Beato che veniva concesso in data 19 novembre 1856 e confermato dal pontefice marchigiano Pio IX il 4 dicembre successivo.

Conclusione

Fin qui una serie di testimonianze ci ha permesso di rivivere fatti accaduti in tempi lontani.
Per la parte più alta della valle possiamo limitarci a percorrere questo ipotetico sentiero.
Dal castello dei Magalotti, chiesa di San Paolo, monastero di San Lorenzo al lago, monastero di Santa Maria di Meriggio attraverso il sentiero che sale per la cresta verso la Madonna del Vallone, i monaci avrebbero potuto utilizzare quale romitorio, la grotta detta del “Maciniccio”.
Ancora più verso l’alto, oltre i ruderi del castello di Campicino, la chiesa di San Pietro di Castel Manardo, il castello dei Da Varano “Vallecanto”, la grotta dello Scortico forse accoglieva gli asceti del primo monastero benedettino “San Salvatore di Riguli Sacri” dove rupi altissime sovrastavano la valle in un orrido splendido e impressionante.
Si conclude qui questo breve viaggio nel passato, alla riscoperta della storia di luoghi in cui monaci e frati, con il lavoro, lo studio e la preghiera, hanno coltivato e riaffermato i valori che sono alla base della dignità dell’uomo di ieri, di oggi e di sempre.
Con la storia dei romiti e collegata la riscoperta di dodici grotte e dell’intera valle del Fiastrone straordinaria nella morfologia, nelle acque e nella flora.

Riflessione sulla soglia

Caro Giubileo
in genere i testi sono introdotti. Io invece intervengo in fine perché la mia e solo una riflessione sulla soglia, quando uno sta per uscire da casa. Perché il lavoro e tuo, condotto quando neppure ti conoscevo. Io ho limato un po’ per riordinare, e, dopo, sulla soglia ho riflettuto.
E mi pare necessario intervenire perché chi ti legge fino in fondo tenga presente che il tuo è un lavoro sulle grotte del Fiastrone che tu hai percorso e ripercorso, solo o con amici, hai collegato riscoprendo sentieri, hai descritto e numerato senza impancarti a geologo o biologo. Sei uno che ama la natura e ti sei tuffato nell’angolo più vivo e fresco, del territorio maceratese.
Hai scoperto le grotte e ti sei incontrato con monaci e frati che mille anni prima, o solo cinquecento, in queste grotte entrarono e vissero non per fuggire il resto del mondo, come dissero i loro superficiali osservatori, ma perché nelle grotte il tempo, quello loro, quello personale si faceva pieno. Era gente diversa che abbandonava i generi di consumo per riempirsi di altro, quello che noi siamo andati perdendo. Tu hai risalito a ritroso quel rumoroso torrentaccio che e il Fiastrone, hai lasciato dietro il mondo del consumo e, nelle grotte, hai fiutato il mondo della natura dove monaci e frati vissero quello interiore.
Che fosse un suggerimento per la vera vita?
A. Bittarelli

Itinerari e sentieri

Per raggiungere le grotte che si trovano nella parte bassa della valle si possono percorrere due itinerari (prima uscire dalla A-14 Civitanova Marche -Macerata) provenendo dalla superstrada Civitanova Marche – Foligno (SS. 77-Bis) o da Sarnano, Pían di Pieca, Fiastra (SS. Picena 78).

Primo percorso.
Supestrada – uscita per Caldarola – per Cessapalombo, deviazione per Montalto – per Villa di Cessapalombo.
Arrivati alla frazione Villa, a fianco della chiesa, di fronte allo specchio visualizzatore imboccare la via che sale verso destra, all’altezza del ponte girare a sinistra e seguire le frecce direzionali sino alla piazzola di sosta delle auto.
Da qui e possibile, prendendo l’unico sentiero, visitare sia le forre, le Grotte delle Capre, le Grotte delle Penitenti, lo Scoglio di Sant’Egidio, l’eremita, situati sul versante di sinistra del Fiastrone, guardando verso la diga.
Oppure visitare il primo convento, la Grotta dei Frati, la Grotta dei Partigiani, la Grotta del Lavatoio situati sul versante destro del Fiastrone, guardando sempre verso la diga.
Per chi desidera arrivare fino alla Valle di Nicola, attraverso le Lame Rosse, il Fosso della Regina e visitare il Salto della Regina, la Grotta di Nicola e quella del Beato Ugolino; prendere il sentiero di destra che si incontra prima di arrivare alla Grotta dei Frati.
Questo percorso da capre, di eccezionale bellezza, richiede circa quattro ore di tempo ed un buon allenamento.

Secondo percorso.
All’altezza della frazione di Monastero, deviare per l’Abbadia di San Salvatore.
Una stradina imbrecciata si ricongiunge, scendendo alle Forre, con l’altra precedente e conduce al piazzale di sosta.
Qualora uno volesse invece ripercorrere per intero il vecchio sentiero tracciato dai monaci, all’altezza del cimitero sito nelle vicinanze dell’abbazia di San Salvatore, lasciare la macchina e scendere a piedi dirigendosi verso la Grotta dei Frati, attraversare il Fiastrone per ricongiungersi con il sentiero che abbiamo visto sopra e che parte dalla piazzola. Per visitare la parte alta della valle, non essendoci un itinerario preciso, si suggerisce di affidarsi alla cartina.

Bibliografia

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– C. Lili, Dell’Historia di Camerino, Macerata 1649, 1652 p. II p. 106-108.

INDICE

Cap. I – Cenni storici sulla valle del Fiastrone
Cap. II – Il fenomeno del monachesimo – Il monastero di San Salvatore di Rio Sacro Cap. III – Altri insediamenti benedettini lungo la valle
Cap. IV – San Romualdo e la sua riforma – Santa Maria in Insula e la sua storia
Cap. V – I Cistercensi e l’abbazia di San Pietro in Valle di Ferentillo
Cap. VI – Il monaco – L’eremita
Cap. VII – Le grotte nell’alta valle e i sentieri che li unisce
Cap. VIII – I Francescani ed il Francescanesimo
Cap. IX – La Grotta dei Frati
Cap. X – Il secondo convento
Cap. XI – Le Grotte delle Capre e le altre Grotte
Cap. XII – Il Beato Ugolino da Fiegni

Conclusione
Itinerari e sentieri
Cartine indicatrici
Bibliografia
Giornata di lavoro alla Grotta dei Frati
Gian Claudio Giubileo e Don Oreste Campagna

La Grotta dei Frati, dell’Asino, dei Partigiani , le Forre, i sentieri hanno bisogno di manutenzione e pulizia. oggi un piccolo gruppo guidato da Don Oreste, Gian Claudio ed i ragazzi della Comunità Incontro residenti nel centro di Santa Maria dell’Isola di Monastero hanno cura di questi luoghi. La Grotta necessita di una attenzione particolare poichè per evitare che le acque di un ruscello sovrastante che nasce da una sorgente spontanea, invadano la Grotta stessa quando le piogge, specialmente durante i temporali estivi, portano copiose acque fuori dagli argini, occorre salire per due volte all’anno salire su per un sentiero da capre ed inerpicarsi fino al rigagnolo che diventa torrente e con pale e piccone risistemare gli argini e pulirne il letto. Più agevole e lo spazio avanti alla grotta ed i sentieri limitrofi che portano alle Forre. Con due decespugliatori, con zappe, falcioni e falcette si riesce a tenere abbastanza puliti questi luoghi, ivi compresa la manutenzione di una passerella che viene utilizzata per attraversare il Fiastrone lungo il sentiero che porta alle Forre. Quattro volte all’anno si provvede a fare detti lavori, la giornata tipo inizia alle 8,30 quando ci si ritrova davanti alla Casa della Comunità per prendere i ragazzi, qualche attrezzo, i decespugliatori, taniche ed i viveri per un pranzo al sacco che i ragazzi stessi preparano. La prima sosta e sempre alla Grotta dei Frati ed i lavori si iniziano da qui. Si sale poi alle sorgenti sopra la Grotta con molta fatica, si fa pranzo con buon appetito poi, dopo una breve sosta ci si dedica al ruscello per ripulirlo dai detriti, rami foglie che le intemperie vi depositano. Verso le diciassette e trenta si ritorna alla base. Quando si va alle Forre invece, dopo essersi dedicati alla Grotta e fatto pranzo si scende fino alle Forre. Nei mesi estivi, arrivati al punto più stretto dove quasi si toccano le rocce alla base della valle, messi i piedi in acqua si risale fino al laghetto ed a volte qualche scherzo sgorga spontaneo. Verso le 17,30 si ritorna un pò stanchi, bagnati ma con la felicità nel cuore e la gioia di aver trascorso una giornata spensierata tra veri amici e con la speranza che altre persone potranno ripercorrere quei sentieri ed incontrarsi con monaci e frati che per anni hanno vissuto una vita semplice, da eremiti per cercare il Signore.

tratto da “Grotte e sentieri nell’Alta valle del Fiastrone” a cura delle Amministrazioni comunali di Fiastra e Cessapalombo 1991 – Gian Claudio Giubileo.

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